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La nuova medicina integrata

DiBruno Lanata

Gen 8, 2022

Un’alleanza terapeutica per la salute dell’uomo.

Intervista al dottor Enzo Soresi

Prezioso supporto alla medicina tradizionale o rischiosa fonte di interazioni che possono rendere i trattamenti meno efficaci, la medicina integrata è da tempo al centro di un acceso dibattito.
In realtà, anche se l’ufficializzazione delle CAM (Complementary and Alternative Medicine) è piuttosto recente, il concetto di integrazione in ambito medico è molto antico.

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Obiettivo della medicina integrata, così come citato nel Manifesto presentato dalla Siomi nel dicembre del 2011, è quello di promuovere un’alleanza che armonizzi le conoscenze maturate in differenti ambiti disciplinari, in diverse epoche e in svariati ambiti culturali. Mentre centrale si pone la figura della persona vista nella sua globalità e il valore della validazione scientifica delle pratiche.
Diffusa a livello mondiale oggi la medicina integrata è utilizzata anche presso importanti strutture cliniche italiane.
Approfondiamo l’argomento con il dottor Enzo Soresi, primario emerito di pneumologia all’ospedale Niguarda di Milano, che in questo settore ha maturato una pluriennale esperienza oltre a essere autore di Guarire con la nuova medicina integrata, pubblicato insieme a Pierangelo Garzia ed Edoardo Rosati.

Professor Soresi, lei è quello che si definisce “un medico scientifico”. Una brillante carriera al Niguarda fino a diventare primario della Divisione di pneumotisiologia. Eppure nel suo libro Il cervello anarchico, sviluppando il tema della PNEI, racconta della sua apertura al mondo della medicina integrata, e in particolare all’impiego del vischio per i malati di tumore polmonare. Come è avvenuto questo tipo di approccio?

Sono entrato al Niguarda 1967 come assistente in Anatomia Patologica. Tre anni dopo, conseguita la specialità, mi sono trasferito al reparto di Pneumologia che, all’epoca, disponeva di un’ottantina di letti, di cui settanta occupati da pazienti affetti da tumore polmonare. Il tumore polmonare è sempre stata la bestia nera dell’oncologia: io lo chiamo lo squalo bianco per la sua inesorabilità.
Il mio incontro con il vischio è avvenuto negli anni Settanta, proprio nel periodo in cui lavoravo presso il Niguarda.
Una sera, mentre ero di guardia presso il reparto, sentii bussare alla porta del mio studio. Mi trovai di fronte un paziente che era stato dimesso alcuni mesi prima: un uomo sulla sessantina, magro, cui avevo diagnosticato un tumore polmonare inoperabile. Gli avevo proposto di sottoporsi a dei cicli di chemioterapia, ma lui aveva rifiutato.
Ora, mi chiedeva se avevo tempo per confrontare la radiografia che aveva sottobraccio con quella che gli era stata fatta prima di essere dimesso. Affiancai le due lastre sul diafanoscopio: il tumore si era ridotto di oltre il cinquanta per cento.
Alla domanda se aveva seguito qualche ciclo di chemioterapia rispose di no, che si era sottoposto a una cura a base di Viscum Quercus cum Hg. E mi mostrò una ricetta del professor Buongiorno, un collega che ebbi in seguito occasione di incontrare. A quei tempi ero un giovane medico, fresco di specializzazione, e il professor Buongiorno era un signore âgé, un medico staineriano di grande cultura ed esperienza, maturata anche in campo omeopatico e fitoterapico. Fissai un appuntamento nel suo studio e, nell’arco di un pomeriggio, il professore mi aprì le porte al mondo della medicina antroposofica. E mi spiegò come utilizzasse il vischio per il suo effetto antiproliferativo e la capacità di stimolare il sistema immunitario, integrandolo con altre sostanze che ne potenziavano l’efficacia.
Dopo questo colloquio, presi in cura il paziente che, seguendo la terapia col vischio, visse per altri due anni in buone condizioni generali. Cosa per me del tutto insolita se consideriamo che i pazienti affetti da tumore polmonare inoperabile, all’epoca, difficilmente superavano l’anno di vita.

Crede quindi che sia superato l’approccio proposto dalla medicina basata sull’evidenza?

Personalmente ho sempre affrontato la medicina in senso scientifico, rivolgendomi alla cosiddetta medicina basata sull’evidenza. Anche nell’oncologia, però, in presenza di una chiara criticità legata alla scarsa risposta a trattamenti chemio e radioterapici che mortificano la biologia, l’apertura alla medicina integrata propone interessanti prospettive proprio nell’uso di sostanze – dal vischio alla micoterapia – volte a ottimizzare la risposta del sistema immunitario.

Secondo lei i principi della medicina allopatica e quelle complementari possono convivere all’interno di una stessa terapia?

L’esperienza di cui ho precedentemente parlato, mi portò a riflettere in merito a potenziali terapie da integrare al percorso chemioterapico.
Personalmente sono sempre stato un medico scientifico che si è rivolto alla medicina basata sull’evidenza. Il mio percorso clinico mi ha portato però anche ad approfondire la conoscenza dell’impiego del vischio recandomi in una clinica steineriana nei pressi di Basilea. Misi così a fuoco l’attività di questa pianta capace di sviluppare due azioni terapeutiche: una di carattere anti-proliferativo, che spiegava la riduzione di quel tumore, l’altra di stimolo dell’immunità naturale.
D’altra parte, nel mio pluriennale percorso di terapie contro il tumore polmonare avevo avuto anche modo di verificare i vantaggi offerti dall’immuno-terapia con il vaccino antitubercolare. Un vaccino potentemente immunogeno sul quale ho condotto uno studio sotto l’egida dell’Università di Vienna.
Si tratta di uno studio molto complesso, durato un anno, in quanto il vaccino forniva risposte abbastanza aggressive. Al termine della fase sperimentale, avevo avuto modo di constatare come, nel mio gruppo di 128 pazienti, quelli vaccinati col BCG presentavano indubbi vantaggi.
Intanto, gli studi di metanalisi, sviluppati negli anni ‘90, avevano evidenziato come la chemioterapia post-chirurgica riduceva del due per cento la sopravvivenza dei malati. A conferma che la componente tossica del trattamento non favoriva la risposta biologica. Mentre il vaccino BCG presentava un 9% di miglioramento della sopravvivenza.
Il potenziamento dell’immunità naturale rappresenta, quindi, un valido baluardo in grado di controllare la crescita delle cellule tumorali residue. Per questo ai miei pazienti operati di cancro polmonare e con rischio di ricaduta metastatica propongo il Viscum Quercus come terapia adiuvante durante la chemio o la radioterapia, sicuro di proteggerli potenziando l’immunità naturale. Non bisogna poi trascurare i vantaggi derivanti da un’alimentazione rivolta a ridurre l’infiammazione e dall’esercizio fisico che stimola l’attività mitocondriale.

Ha avuto occasione di collaborare con medici antroposofi?

Un’altra occasione di contatto con la medicina antroposofica fu l’incontro, avvenuto negli anni ‘70, con un giovane medico: il dottor Sergio Maria Francardo, che mi chiese di frequentare il reparto di Pneumologia, preoccupandosi di avvertirmi di essere un “medico steineriano”.
Ricordando la precedente esperienza, fui prontamente disponibile a una collaborazione. Tutte le mattine, Francardo mi accompagnava nel mio giro di visite ai malati e nella raccolta delle analisi. In genere, mi osservava in silenzio. Di tanto in tanto, però, mi forniva indicazioni sul suo punto di vista di medico steineriano. Rimase con noi alcuni mesi. Da allora, siamo rimasti buoni amici e ci capita sovente di collaborare. A volte è lui che mi indirizza un paziente con problemi quali versamenti pleurici, altre volte sono io che lo contatto per integrare una terapia steineriana sui miei pazienti oncologici.

Quali possono essere i vantaggi e i limiti di una possibile integrazione tra medicine?

Un aspetto fondamentale delle cosiddette medicine complementari è l’approccio olistico al paziente. Presso la clinica di Basilea di cui ho parlato prima i malati sono sollecitati a scrivere la propria biografia, a dipingere, ad ascoltare musica. Si cerca di cogliere l’uomo nella sua complessità.
Alcuni medici presentano però un’eccessiva chiusura nei confronti della medicina allopatica che priva però il terapeuta delle risorse fornite dalla scienza.
Certo, all’epoca di Samuel Hahnemann, fondatore dell’omeopatia, o quando Rudolf Steiner aveva sviluppato le proprie teorie, la medicina scientifica presentava gravi limiti. Ma oggi è diverso. Se, ad esempio, i medici omeopatici integrassero la cultura dell’antibiotico, del cortisone con le loro conoscenze, ne guadagnerebbero davvero molto. D’altra parte constatiamo come il medico allopatico sia diventato eccessivamente pragmatico: sviluppa protocolli, si avvale di studi statistici, ma ha perso il gusto della relazione con il paziente nella sua specificità.
È sempre più orientato verso un mondo di complessità che è ridicolo pensare di poter governare. Bisogna correlarsi, usare di tutto e cercare di fare una buona medicina che non può essere solo scientifica ma anche basata sulla osservazione dei singoli casi clinici. Ricordiamoci, come afferma Edoardo Boncinelli, che la medicina si deve considerare una scienza in progress.

Come suggerisce nel suo libro, quindi, una possibilità di contatto risiederebbe nella medicina integrata; in una sorta di alleanza terapeutica paritetica, dove nessuna prevale sull’altra?

Non proprio. Quello che occorre è una medicina basata su una grande esperienza clinica supportata da un’apertura mentale non legata a un paradigma.
Pensi, ad esempio, al cambiamento che ho dovuto operare nel mio cervello. Io parto da una medicina fortemente scientifica. Quando, nel ’98, ho cessato la mia attività ospedaliera, avevo maturato un percorso esperienziale già molto ricco, con 150 articoli di oncologia polmonare.
In questi lavori mi ero prevalentemente occupato di un tumore neuroendocrino, il microcitoma, da cui è nata la mia cultura in neurobiologia.
La biologia mi ha aperto la mente a un nuovo approccio all’organismo. Un approccio che ha rimesso in gioco in maniera potente l’effetto placebo. Un meccanismo assolutamente fisiologico, anche se la medicina contemporanea mostra insofferenza nei suoi confronti, quasi si trattasse di una sorta di truffa.
La risposta placebo è una risposta che tutti noi abbiamo: non è legata a un’isteria, è un momento biologico. Tanto più il medico è antropologo, tanto più è “sciamano”, tanto più è bravo nel gestire la comunicazione terapeutica, tanto più la risposta placebo è valida. Perché la bellezza della medicina risiede nella relazione. Nel farsi carico del malato, delle sue sofferenze, delle sue scelte. Nel mio libro Guarire con la medicina integrata, affronto questi nuovi concetti che in parte i padri delle medicine alternative o complementari avevano anticipato con un’intuizione geniale. In fondo è molto divertente invecchiare come medico alla luce di un approccio veramente aperto, di un modo diverso di fare medicina. Perché la capacità del medico dovrebbe essere quella di saper sfruttare a 360 gradi tutte le conoscenze a sua disposizione.


Nato nel 1938, Enzo Soresi, medico specialista in anatomia patologica, malattie dell’apparato respiratorio e oncologia clinica, ha sviluppato tutta la sua carriera presso l’Ospedale di Niguarda Ca’ Granda dove – dal 1990 al 1998 – ha diretto come primario la Divisione di pneumotisiologia.
Specializzato in oncologia polmonare ha pubblicato sull’argomento oltre 150 articoli comparsi su riviste scientifiche nazionali e internazionali.
Studioso di neurobiologia, ha pubblicato: Il cervello anarchico, UTET (2005); Guarire con la nuova medicina integrata, con Pierangelo Garzia ed Edoardo Rosati, Sperling & Kupfer (2012); Mitocondrio mon amour, con Pierangelo Garzia, UTET (2015); Come ringiovanire invecchiando, con Pierangelo Garzia UTET (2019).